FOGLIE NEL VENTO
(Racconto vincitore della X Edizione del "Premio Letterario Internazionale Mondolibro")
(Racconto vincitore della X Edizione del "Premio Letterario Internazionale Mondolibro")
Simone allungò un braccio e con una dolcezza disarmante accarezzò il
volto della madre.
“Ciao”.
Fu l’unica parola che riuscì a
pronunciare ed abbassando gli occhi per la vergogna, si guardò distrattamente
le scarpe bagnate dalla pioggia.
Dense e minacciose nuvole
scrutavano dall’alto il mondo, attendendo con ansia di scaricare un’altra
raffica di proiettili d’acqua.
Le nubi apparivano simili ad uno
stormo d’avvoltoi che spinti nel cielo da un soffio di vento, aspettavano il
momento più opportuno per colpire le prede ferite e senza alcuna difesa.
Mille pensieri affollavano la
mente del ragazzo e dopo aver tratto un profondo respiro, disse “Perdonami
mamma. Perdonami se in questi mesi non ho avuto la forza di venirti a trovare.
Forse sono stato un vigliacco, imprigionato dalle mie stesse paure;
imprigionato da un vortice che lentamente mi stava inghiottendo”.
Un nodo serrò la gola di Simone e
voltandosi per non farsi notare dalla madre, iniziò sommessamente a piangere.
In lontananza, oltre una folta
siepe, c’era un lago mosso da tante piccole onde e che aveva come compagna una
fitta nebbiolina. Per colpa di essa o per gli occhi velati di lacrime, Simone
non riusciva a definire i contorni delle alte montagne site sulla sponda opposta.
“Vorrei poter tornare indietro
nel tempo e cambiare le cose. Avrei voluto un destino meno benevolo, graffiato
da ferite cosparse di sale e così condividere con te quei momenti di terribili
sofferenze. Forse sto farneticando parole senza senso, dettate da un disagio
fisico e mentale che mi divora poco per volta. La verità, è che mi sento in
colpa”.
La madre lo osservava silenziosa,
con la bocca socchiusa in un sorriso consolatorio. Aveva due occhi verde smeraldo,
incastonati in un viso rigato da sottili rughe. I capelli, di un nero corvino,
si appoggiavano su due esili spalle e come sottili fili di seta le sfioravano
delicatamente il collo.
Simone la adorava.
Con voce mossa da una crescente
emozione, il ragazzo disse “ Per molti il bianco, è segno di purezza; ma non
per me. Il bianco è solitudine. Ogni colore nasce dall’unione di più colori; il
bianco, invece, è destinato a combattere sempre da solo.
Il mio corpo, la mia anima e il
mio cuore, hanno lavato via ogni sfumatura di colore, vestendo i candidi abiti
di una tremenda solitudine”.
Nel silenzio si poteva udire il
forte suono del canto di un gallo; il cui verso, echeggiando, rimbalzava contro
le verdi pareti dei monti.
La madre continuava a guardarlo
con un morbido sorriso materno e Simone, strofinandosi gli occhi gonfi di
malinconia, disse “Mamma tu sei il cielo spruzzato di stelle. Sei la notte e il
giorno. Sei un caldo vento spinto da mari tropicali. Sei la voce di tutte le
creature viventi. Sei la terra che porta vita per poi tornare terra. Sei tutti
i sapori. Sei l’acqua che mi disseta. Sei il fuoco che mi scalda. Sei un
gigante che mi protegge. Sei una voce che mi consola. Sei vita che dà vita. Sei
la luna argentata ed il sole dorato. Sei l’oro e l’argento. Sei il seme di un
fiore. Sei un bacio prima di dormire. Sei un profumo che m’inebria l’anima. Sei
una carezza che mi sfiora il cuore. Sei la mia vita. Siamo la stessa vita”.
La sera avanzava decisa,
spingendo il sole dall’altra parte del globo; mentre la luna, prendendo a
spallate le nuvole, si fece largo nel cielo ed alcune stelle gelose decisero di
accompagnarla in quel viaggio e scrutare con occhi luccicanti le meraviglie del
mondo.
Mio nonno diceva: le stelle sono le lacrime di Dio intrappolate nel
cielo, che ogni giorno l’Onnipotente versa osservando emozionato la sua
creatura. Pensò tra sé il ragazzo.
Un gatto nero come la notte,
inseguito dalla propria ombra, sfilò davanti a Simone. Il felino lo fissò
guardingo per qualche istante; poi con indifferenza, svanì nel nulla.
Sarebbe rimasto volentieri ancora
un pò con sua madre, ma il freddo pungente gli addentava sempre di più le ossa.
Tornerò.
Alcune gocce di pioggia
cominciarono a battere sul selciato.
Tic tac, tic tac.
Una di esse si insinuò tra i
capelli neri della madre, per poi correre lungo le guance vellutate e
scomparire oltre il collo.
Simone prese un fazzoletto dalla
tasca ed asciugò la foto della mamma, montata in una lapide di marmo rosa
venato da striature nere.
Prima di allontanarsi posò vicino
a delle rose rosse, un foglio scritto a mano. Un piccolo pensiero dedicato alla
persona più importante della sua vita.
Madre e figlio. Esistenza nell’esistenza.
L’uno è un fiore, l’altro l’acqua che lo nutre.
L’uno è il vento, l’altro una vela da esso sospinta.
L’uno è il sole, l’altro la vita che prospera grazie ad esso.
Voltandosi il ragazzo s’incamminò
a testa bassa verso uno stretto sentiero.
Il padre lo attendeva al cancello
del cimitero, fumando nervosamente una sigaretta. Nel buio sempre più fitto il
puntino della brace che si accendeva ad intermittenza, era simile ad un vecchio
faro inghiottito dalle tenebre e dal mare nero come l’inchiostro.
Lungo la stradina ghiaiosa che
riconduceva verso il mondo dei vivi, un leggero vento soffiò. Delle bellissime
foglie rosso rubino, abbandonarono i loro padroni rami e fluttuando si deposero
delicatamente sui bianchi sassolini simili a zuccherosi confetti.
Evitando di calpestarle, Simone
ne osservò una.
Quanto può essere incantevole una banalissima foglia. Pensò tra sé.
I comignoli delle rustiche case
sputavano boccate di fumo grigio, impregnando l’aria del tipico odore di legna
bruciata che si miscelava con quello più tenue della terra bagnata.
Il ragazzo raggiunse il padre e
parlandosi solo con gli occhi, s’incamminarono verso casa.
Si svegliò improvvisamente con il
cuore che batteva impazzito. Aveva la fronte imperlata di sudore ed il pigiama
umido. Fece un profondo respiro e lentamente riacquistò una calma apparente.
Un sogno. Si era trattato di uno
sconvolgente sogno.
Scese dal letto; e senza accendere
la luce si avviò verso il corridoio. All’altezza di una porta si bloccò. Attese
qualche istante; poi afferrando con determinazione la maniglia entrò nel
locale.
Pigiò un interruttore posto alla
sua destra; e con decisione un bagliore spaccò l’oscurità.
Sopra alla scrivania, vicino ad
un portapenne, c’era una foto: la foto di una madre e di un figlio abbracciati.
La guardò con nostalgia e
tristezza, mentre alcune lacrime le bagnavano gli occhi verde smeraldo.
Passandosi una mano fra i lunghi
capelli nero corvino, contemplò come un’opera d’arte la stanza di Simone.
Da sei mesi non c’era più.
Si era battuto da leone, ma la
malattia lo aveva lentamente consumato come fosse la cera di una candela. Il
Signore decise così di prenderlo con sé e porre fine a quegli inutili tormenti.
Prendi me; lascialo vivere! Ti supplico!!
Aveva pregato invano la madre,
mentre Simone esalava gli ultimi soffi di vita.
Non era mai andata sulla tomba
del figlio. Non ci riusciva.
Ma ora capiva.
Nel sogno Dio aveva esaudito le
sue suppliche, lasciando vivere Simone e portando lei nel regno dei cieli. Le
parole espresse dal ragazzo erano i pensieri della madre, rimasti per troppo
tempo intrappolati in un muto silenzio.
Forse era il vento che strisciava
fra gli alberi, ma in lontananza le parve di udire la voce del figlio.
Non ti preoccupare mamma. Io ora sto bene.
Il sole splendeva nel cielo e gli
uccellini festosi cinguettavano bizzarre cantilene.
Oltre la folta siepe, il lago era
ammantato dall’ombra delle alte montagne; mentre l’aria aveva sempre lo stesso
sapore di legna bruciata.
La madre di Simone s’incamminò
decisa lungo il sentiero ghiaioso.
Un vento freddo proveniente dal
lago le scombinò improvvisamente i capelli e mentre con le dita li riassestava,
una foglia rosso rubino si staccò da un ramo svolazzando ai suoi piedi.
Quanto può essere incantevole una banalissima foglia.
La donna abbassandosi l’afferrò e
dopo averla teneramente accarezzata, la posò sul liscio marmo accanto alla foto
del figlio.
Nessun commento:
Posta un commento