martedì 7 febbraio 2012

FOGLIE NEL VENTO


FOGLIE NEL VENTO
(Racconto vincitore della X Edizione del "Premio Letterario Internazionale Mondolibro")

Simone allungò un braccio e con una dolcezza disarmante accarezzò il volto della madre.
“Ciao”.
Fu l’unica parola che riuscì a pronunciare ed abbassando gli occhi per la vergogna, si guardò distrattamente le scarpe bagnate dalla pioggia.
Dense e minacciose nuvole scrutavano dall’alto il mondo, attendendo con ansia di scaricare un’altra raffica di proiettili d’acqua.
Le nubi apparivano simili ad uno stormo d’avvoltoi che spinti nel cielo da un soffio di vento, aspettavano il momento più opportuno per colpire le prede ferite e senza alcuna difesa.
Mille pensieri affollavano la mente del ragazzo e dopo aver tratto un profondo respiro, disse “Perdonami mamma. Perdonami se in questi mesi non ho avuto la forza di venirti a trovare. Forse sono stato un vigliacco, imprigionato dalle mie stesse paure; imprigionato da un vortice che lentamente mi stava inghiottendo”.
Un nodo serrò la gola di Simone e voltandosi per non farsi notare dalla madre, iniziò sommessamente a piangere.
In lontananza, oltre una folta siepe, c’era un lago mosso da tante piccole onde e che aveva come compagna una fitta nebbiolina. Per colpa di essa o per gli occhi velati di lacrime, Simone non riusciva a definire i contorni delle alte montagne site sulla sponda opposta.
“Vorrei poter tornare indietro nel tempo e cambiare le cose. Avrei voluto un destino meno benevolo, graffiato da ferite cosparse di sale e così condividere con te quei momenti di terribili sofferenze. Forse sto farneticando parole senza senso, dettate da un disagio fisico e mentale che mi divora poco per volta. La verità, è che mi sento in colpa”.
La madre lo osservava silenziosa, con la bocca socchiusa in un sorriso consolatorio. Aveva due occhi verde smeraldo, incastonati in un viso rigato da sottili rughe. I capelli, di un nero corvino, si appoggiavano su due esili spalle e come sottili fili di seta le sfioravano delicatamente il collo.
Simone la adorava.
Con voce mossa da una crescente emozione, il ragazzo disse “ Per molti il bianco, è segno di purezza; ma non per me. Il bianco è solitudine. Ogni colore nasce dall’unione di più colori; il bianco, invece, è destinato a combattere sempre da solo.
Il mio corpo, la mia anima e il mio cuore, hanno lavato via ogni sfumatura di colore, vestendo i candidi abiti di una tremenda solitudine”.
Nel silenzio si poteva udire il forte suono del canto di un gallo; il cui verso, echeggiando, rimbalzava contro le verdi pareti dei monti.
La madre continuava a guardarlo con un morbido sorriso materno e Simone, strofinandosi gli occhi gonfi di malinconia, disse “Mamma tu sei il cielo spruzzato di stelle. Sei la notte e il giorno. Sei un caldo vento spinto da mari tropicali. Sei la voce di tutte le creature viventi. Sei la terra che porta vita per poi tornare terra. Sei tutti i sapori. Sei l’acqua che mi disseta. Sei il fuoco che mi scalda. Sei un gigante che mi protegge. Sei una voce che mi consola. Sei vita che dà vita. Sei la luna argentata ed il sole dorato. Sei l’oro e l’argento. Sei il seme di un fiore. Sei un bacio prima di dormire. Sei un profumo che m’inebria l’anima. Sei una carezza che mi sfiora il cuore. Sei la mia vita. Siamo la stessa vita”.
La sera avanzava decisa, spingendo il sole dall’altra parte del globo; mentre la luna, prendendo a spallate le nuvole, si fece largo nel cielo ed alcune stelle gelose decisero di accompagnarla in quel viaggio e scrutare con occhi luccicanti le meraviglie del mondo.
Mio nonno diceva: le stelle sono le lacrime di Dio intrappolate nel cielo, che ogni giorno l’Onnipotente versa osservando emozionato la sua creatura. Pensò tra sé il ragazzo.
Un gatto nero come la notte, inseguito dalla propria ombra, sfilò davanti a Simone. Il felino lo fissò guardingo per qualche istante; poi con indifferenza, svanì nel nulla.
Sarebbe rimasto volentieri ancora un pò con sua madre, ma il freddo pungente gli addentava sempre di più le ossa.
Tornerò.
Alcune gocce di pioggia cominciarono a battere sul selciato.
Tic tac, tic tac.
Una di esse si insinuò tra i capelli neri della madre, per poi correre lungo le guance vellutate e scomparire oltre il collo.
Simone prese un fazzoletto dalla tasca ed asciugò la foto della mamma, montata in una lapide di marmo rosa venato da striature nere.
Prima di allontanarsi posò vicino a delle rose rosse, un foglio scritto a mano. Un piccolo pensiero dedicato alla persona più importante della sua vita.
Madre e figlio. Esistenza nell’esistenza.
L’uno è un fiore, l’altro l’acqua che lo nutre.
L’uno è il vento, l’altro una vela da esso sospinta.
L’uno è il sole, l’altro la vita che prospera grazie ad esso.
Voltandosi il ragazzo s’incamminò a testa bassa verso uno stretto sentiero.
Il padre lo attendeva al cancello del cimitero, fumando nervosamente una sigaretta. Nel buio sempre più fitto il puntino della brace che si accendeva ad intermittenza, era simile ad un vecchio faro inghiottito dalle tenebre e dal mare nero come l’inchiostro.
Lungo la stradina ghiaiosa che riconduceva verso il mondo dei vivi, un leggero vento soffiò. Delle bellissime foglie rosso rubino, abbandonarono i loro padroni rami e fluttuando si deposero delicatamente sui bianchi sassolini simili a zuccherosi confetti.
Evitando di calpestarle, Simone ne osservò una.
Quanto può essere incantevole una banalissima foglia. Pensò tra sé.
I comignoli delle rustiche case sputavano boccate di fumo grigio, impregnando l’aria del tipico odore di legna bruciata che si miscelava con quello più tenue della terra bagnata.
Il ragazzo raggiunse il padre e parlandosi solo con gli occhi, s’incamminarono verso casa.

Si svegliò improvvisamente con il cuore che batteva impazzito. Aveva la fronte imperlata di sudore ed il pigiama umido. Fece un profondo respiro e lentamente riacquistò una calma apparente.
Un sogno. Si era trattato di uno sconvolgente sogno.
Scese dal letto; e senza accendere la luce si avviò verso il corridoio. All’altezza di una porta si bloccò. Attese qualche istante; poi afferrando con determinazione la maniglia entrò nel locale.
Pigiò un interruttore posto alla sua destra; e con decisione un bagliore spaccò l’oscurità.
Sopra alla scrivania, vicino ad un portapenne, c’era una foto: la foto di una madre e di un figlio abbracciati.
La guardò con nostalgia e tristezza, mentre alcune lacrime le bagnavano gli occhi verde smeraldo.
Passandosi una mano fra i lunghi capelli nero corvino, contemplò come un’opera d’arte la stanza di Simone.
Da sei mesi non c’era più.
Si era battuto da leone, ma la malattia lo aveva lentamente consumato come fosse la cera di una candela. Il Signore decise così di prenderlo con sé e porre fine a quegli inutili tormenti.
Prendi me; lascialo vivere! Ti supplico!!
Aveva pregato invano la madre, mentre Simone esalava gli ultimi soffi di vita.
Non era mai andata sulla tomba del figlio. Non ci riusciva.
Ma ora capiva.
Nel sogno Dio aveva esaudito le sue suppliche, lasciando vivere Simone e portando lei nel regno dei cieli. Le parole espresse dal ragazzo erano i pensieri della madre, rimasti per troppo tempo intrappolati in un muto silenzio.
Forse era il vento che strisciava fra gli alberi, ma in lontananza le parve di udire la voce del figlio.
Non ti preoccupare mamma. Io ora sto bene.

Il sole splendeva nel cielo e gli uccellini festosi cinguettavano bizzarre cantilene.
Oltre la folta siepe, il lago era ammantato dall’ombra delle alte montagne; mentre l’aria aveva sempre lo stesso sapore di legna bruciata.
La madre di Simone s’incamminò decisa lungo il sentiero ghiaioso.
Un vento freddo proveniente dal lago le scombinò improvvisamente i capelli e mentre con le dita li riassestava, una foglia rosso rubino si staccò da un ramo svolazzando ai suoi piedi.
Quanto può essere incantevole una banalissima foglia.
La donna abbassandosi l’afferrò e dopo averla teneramente accarezzata, la posò sul liscio marmo accanto alla foto del figlio.

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