lunedì 27 febbraio 2012

NON DISTURBATE I MORTI

NON DISTURBATE I MORTI

Bill detto “spaghetto” fu l’ultimo dei tre ragazzi a varcare il cimitero. Chiuse il cancello che stranamente non emise al­cun cigolio, separando così silenziosamente il mondo dei vivi da quello dei morti.
Tom detto “il gigante” guidava lo sparuto gruppetto attra­verso gli stretti sentieri ghiaiosi che simili a bianchi serpenti dividevano le lunghe file di lapidi.
La fitta oscurità della notte, giocando con la tenue luce della luna, creava strane e deformi ombre che in quel sinistro luogo apparivano ancora più terrificanti.
«Da questa parte» disse sussurrando Tom detto “il gigante”.
Will che nonostante la bassa statura non aveva alcun nomi­gnolo ma era semplicemente Will detto “Will”, seguiva come un segugio Tom detto “il gigante”, nonostante non sa­pesse dove stessero andando e perché si trovassero nel ci­mitero.
Will detto “Will” non parlava molto, anzi, non parlava quasi mai. Avrebbero potuto chiamarlo Will detto “il basso”, op­pure Will detto “il muto” ma per qualche ignota ragione era Will detto “Will”. Forse perché avevano considerazione in lui, oppure perché di considerazione non ne avevano affatto.
Nel silenzio si udiva solo il passo dei ragazzi sopra la can­dida ghiaia. Crick crack, crick, crack. Più che un flebile suono sembrava il lamento di una cornacchia morente.
«Dove stiamo andando?» osò chiedere Bill detto “spa­ghetto”.
«Andiamo a fare una visitina a Jeremia» rispose Tom detto “il gigante” senza voltarsi.
Jeremia era il vecchio custode del cimitero e prima di lui lo era stato suo padre e prima ancora suo nonno. Abitava da solo in una piccola casa in legno oltre il lato occidentale del cimitero. Era una persona schiva, solitaria, silenziosa, in so­stanza: un perfetto guardiano.
I visi sorridenti di uomini, donne, giovani, anziani, stampati sul freddo ed umido marmo delle lapidi, osservavano i tre ragazzi mentre superavano a zig zag file di tombe cullate dalla madre terra.
Tom detto “il gigante” continuava a fare strada tenendo sal­damente una piccola torcia che illuminava ora una lapide, ora una foto, ora un lumino, ora un fiore appassito.
Il verso di una civetta morse improvvisamente il raggelante silenzio, scavando solchi di paura tra le ossa di Bill detto “spaghetto” e Will detto “Will”. Tom detto “il gigante” mo­strò invece indifferenza, continuando a camminare con passo spedito. Avrebbero potuto chiamarlo anche Tom “lo spa­valdo”.
“Non bisogna avere paura dei morti, ma dei vivi” continuava a ripetersi Bill detto “spaghetto”, cercando nel frattempo di non perdere di vista gli altri due ragazzi.
Nonostante ciò, in quel momento, Bill detto “spa­ghetto”avrebbe preferito essere tra i vivi.
Avevano attraversato l’intero cimitero ed ora, nascosti dietro una grossa quercia, osservavano nell’oscurità più cieca l’unica luce proveniente dalla finestra della casa di Jeremia.
Un sottile filo di fumo usciva dal comignolo in pietra, si ar­rampicava in cielo e si espandeva poi in una densa nebbio­lina grigia.
Il vecchio custode era evidentemente a godersi il tepore del camino.
«Che cosa facciamo?» chiese Bill detto “spaghetto”.
«Qualche scherzetto al vecchio» rispose Tom detto “il gi­gante” con un sorriso che gli si allargava sempre più sul volto. «Fai l’ululato del lupo» aggiunse rivolgendosi a Will detto “Will”.
Non parlava molto, ma Will detto “Will” era bravissimo a fare l’ululato del lupo.
«Ahuuuuh» obbedì Will detto “Will” con un perfetto ululato che avrebbe fatto invidia al più narcisista dei licantropi.
La porta della casa si aprì improvvisamente, mentre l’ultimo eco dell’ululato spariva in fondo al pozzo nero della notte.
Il vecchio Jeremia tenendo in mano una vecchia lampada ad olio, molto più vecchia di lui, scese i quattro gradini umidi e marci della piccola veranda.
La pelle incartapecorita del volto e delle mani rischiarati dalla fioca e tremante fiammella, lo faceva apparire come un consunto cadavere senza dimora.
I tre ragazzi protetti dal tronco dell’albero, osservavano at­tenti il povero Jeremia che con passo malfermo si avviava verso di loro.
«Ci avrà visto?» chiese Bill detto “spaghetto”.
«Figurati! È mezzo cieco!» rispose Tom detto “il gigante”.
Will detto “Will” si limitò ad alzare lo sguardo.
«Corri dietro a quel cespuglio ed al mio segnale rifai l’ululato».
«Quale segnale?» chiese Bill detto “spaghetto”.
Tom detto “il gigante”, guardandosi attorno, prese un pic­colo ramo da terra.
«Lancerò questo verso il vecchio. Questo sarà il segnale. Dopodiché scapperemo attraversando il cimitero in direzioni diverse e ci ritroveremo al cancello».
Tutto era pronto.
Il vecchio Jeremia fece qualche passo in direzione del cimi­tero, quando improvvisamente un lungo soffio di vento inve­stì l’aria immobile. Alcune canne di bambù poste in uno sta­gno poco distante, presero a vibrare emettendo un suono continuo.
Un lamento.
Un suono simile ad un ululato.
Da quarant’anni, ogni anno, ogni 12 novembre, udiva quel particolare effetto acustico.
Da quel tragico lontano 12 novembre 1969.
Un brivido gli corse lungo la schiena ricurva, cacciandolo faccia a faccia ad un doloroso passato.
Fece altri due passi.
Un grosso corvo librando nel cielo tinto di nero, si adagiò su un sottile ramo di uno scheletrico albero ormai morente.
Il ramo si spezzò e mentre l’uccello riprendeva il volo, il pezzo di legno cadde sulla spalla di Jeremia, rimbalzando poi a terra.
Da quarant’anni, ogni anno, ogni 12 novembre, un ramo lo colpiva.
Massaggiandosi la spalla dolorante proseguì verso il cimi­tero, quando un fruscio proveniente da un cespuglio catturò la sua attenzione.
Come in quel lontano 12 novembre 1969.
Come ogni 12 novembre.
Illuminando l’arbusto con la vecchia lanterna vide un gatto dal pelo rossiccio che con totale indifferenza si avviò verso le file di lapidi.
I tre ragazzi si separarono prendendo ognuno un sentiero di­verso.
Correvano come pazzi, chi con un sorriso di scherno, chi con il terrore stampato sul volto.
Bill detto “spaghetto” non sorrideva affatto.
Galoppava come un purosangue, avendo come unico riferi­mento la bianca ghiaia. Per il resto era circondato dalla fitta oscurità che come un silenzioso nemico attendeva il mo­mento opportuno per colpire.
E avrebbe colpito.
La strada sempre dritta fino a quel momento voltò brusca­mente verso destra.
Bill detto “spaghetto” troppo concentrato o troppo spaven­tato, non se ne accorse e come un treno che deraglia prose­guì la folle corsa inciampando contro un grosso vaso con dei fiori secchi.
Cadde a terra picchiando violentemente la tempia destra contro lo spigolo di una lapide.
Non fece in tempo ad emettere alcun lamento.
Il viso adagiato in terra su di un lato. La bocca semiaperta. Gli occhi vitrei a fissare il nulla. Una lapide ferita che gron­dava sangue.
Will detto “Will” a dispetto delle corte gambe correva come un fulmine. Aveva una voglia pazza di uscire dal cimitero, nonostante sapesse che al di là del cancello il mondo sarebbe stato più infido e pericoloso.
Uscire, uscire, uscire. Continuava a ripetersi Will detto “Will”.
Improvvisamente decise di abbandonare il sentiero e tagliare attraverso le tombe. Procedendo agilmente a zig zag tra le eterne dimore, sapeva che avrebbe raggiunto il mondo dei vivi molto prima degli altri ragazzi.
Correva, saltava, correva. Ma nonostante la destrezza non fece in tempo a vedere, nel buio sempre più buio, qualcosa di ancora più buio.
Una grossa macchia profonda sei piedi. Un buco. Un buco che attendeva Barnie, il farmacista del paese.
L’ex farmacista del paese che in quel momento stava pas­sando l’ultima notte nel suo letto, circondato dall’affetto e dalle lacrime dei parenti più stretti.
Will detto “Will” tentò disperatamente di frenare con i tal­loni.
Will detto “Will” cadde di testa all’interno del buco e si spezzò il collo.
Per qualche ora, prima che Barnie lo sfrattasse, quel rettan­golo di terra scavato divenne la prima dell’ultima dimora di Will detto “Will”.
Tom detto “il gigante”, facilitato dalla luce della torcia, ar­rivò all’uscita senza particolari difficoltà.
Degli amici nessuna traccia, ma soprattutto il cancello era chiuso.
“Li aspetterò fuori” pensò fra sé Tom detto “il gigante”.
Come un ragno cominciò ad arrampicarsi sulla massiccia in­ferriata. Ma non era un agile ragno, bensì un grasso orso.
 Sudato e affaticato raggiunse comunque la parte superiore del cancello.
Grossi spuntoni in ferro che come affilate lance pungevano il cielo, gli sbarravano la scalata ma Tom detto “il gigante” non si perse d’animo.
Facendo attenzione fece passare una gamba dall’altra parte della cancellata.
Un profondo respiro e poi un altro.
Lentamente cominciò a spostare l’altra gamba. Ma Tom detto “il gigante” era abile a fare pugni, non a scavalcare ar­rugginite inferriate.
Il piede d’appoggio scivolò, insieme alla sua giovane vita.
Rimase lì per tutta la notte in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, con un acuminato pezzo di ferro ficcato nel cuore.
Jeremia conosceva ogni singola tomba, quasi tutti i proprie­tari di esse e quasi tutti li aveva seppelliti lui.
Camminando tra le lapidi superò quella di Barnie il farmaci­sta, morto ormai da quarant’anni. Erano stati amici. Forse l’unico suo vero amico.
Proseguì in silenzio, respirando sommessamente e cammi­nando quasi in punta di piedi. Non voleva disturbare il sonno eterno dei morti.
Poi ad un tratto si fermò, adagiò la lanterna in terra e guardò quelle tre lapidi una accanto all’altra:

- Bill Grabby detto “spaghetto” 1954-1969
- Tom Spill detto “il gigante”    1953-1969
- Will Stand detto “Will”           1954-1969

Come ogni 12 novembre gli spiriti irrequieti dei tre ragazzi rivivevano all’infinito quel loro ultimo infausto giorno di vita. Passeggeri intrappolati su una giostra infernale che gira, gira e rigira ancora senza mai fermarsi. Dove il sinistro mie­titore con il suo cappuccio nero dirige come un maestro di musica la funerea sinfonia.
Come ogni 12 novembre Jeremia osservò con velata tri­stezza e celata compassione le vecchie foto in bianco e nero di Bill, Tom e Will.
E come ogni 12 novembre, da quarant’anni, iniziò a pregare.

martedì 7 febbraio 2012

FOGLIE NEL VENTO


FOGLIE NEL VENTO
(Racconto vincitore della X Edizione del "Premio Letterario Internazionale Mondolibro")

Simone allungò un braccio e con una dolcezza disarmante accarezzò il volto della madre.
“Ciao”.
Fu l’unica parola che riuscì a pronunciare ed abbassando gli occhi per la vergogna, si guardò distrattamente le scarpe bagnate dalla pioggia.
Dense e minacciose nuvole scrutavano dall’alto il mondo, attendendo con ansia di scaricare un’altra raffica di proiettili d’acqua.
Le nubi apparivano simili ad uno stormo d’avvoltoi che spinti nel cielo da un soffio di vento, aspettavano il momento più opportuno per colpire le prede ferite e senza alcuna difesa.
Mille pensieri affollavano la mente del ragazzo e dopo aver tratto un profondo respiro, disse “Perdonami mamma. Perdonami se in questi mesi non ho avuto la forza di venirti a trovare. Forse sono stato un vigliacco, imprigionato dalle mie stesse paure; imprigionato da un vortice che lentamente mi stava inghiottendo”.
Un nodo serrò la gola di Simone e voltandosi per non farsi notare dalla madre, iniziò sommessamente a piangere.
In lontananza, oltre una folta siepe, c’era un lago mosso da tante piccole onde e che aveva come compagna una fitta nebbiolina. Per colpa di essa o per gli occhi velati di lacrime, Simone non riusciva a definire i contorni delle alte montagne site sulla sponda opposta.
“Vorrei poter tornare indietro nel tempo e cambiare le cose. Avrei voluto un destino meno benevolo, graffiato da ferite cosparse di sale e così condividere con te quei momenti di terribili sofferenze. Forse sto farneticando parole senza senso, dettate da un disagio fisico e mentale che mi divora poco per volta. La verità, è che mi sento in colpa”.
La madre lo osservava silenziosa, con la bocca socchiusa in un sorriso consolatorio. Aveva due occhi verde smeraldo, incastonati in un viso rigato da sottili rughe. I capelli, di un nero corvino, si appoggiavano su due esili spalle e come sottili fili di seta le sfioravano delicatamente il collo.
Simone la adorava.
Con voce mossa da una crescente emozione, il ragazzo disse “ Per molti il bianco, è segno di purezza; ma non per me. Il bianco è solitudine. Ogni colore nasce dall’unione di più colori; il bianco, invece, è destinato a combattere sempre da solo.
Il mio corpo, la mia anima e il mio cuore, hanno lavato via ogni sfumatura di colore, vestendo i candidi abiti di una tremenda solitudine”.
Nel silenzio si poteva udire il forte suono del canto di un gallo; il cui verso, echeggiando, rimbalzava contro le verdi pareti dei monti.
La madre continuava a guardarlo con un morbido sorriso materno e Simone, strofinandosi gli occhi gonfi di malinconia, disse “Mamma tu sei il cielo spruzzato di stelle. Sei la notte e il giorno. Sei un caldo vento spinto da mari tropicali. Sei la voce di tutte le creature viventi. Sei la terra che porta vita per poi tornare terra. Sei tutti i sapori. Sei l’acqua che mi disseta. Sei il fuoco che mi scalda. Sei un gigante che mi protegge. Sei una voce che mi consola. Sei vita che dà vita. Sei la luna argentata ed il sole dorato. Sei l’oro e l’argento. Sei il seme di un fiore. Sei un bacio prima di dormire. Sei un profumo che m’inebria l’anima. Sei una carezza che mi sfiora il cuore. Sei la mia vita. Siamo la stessa vita”.
La sera avanzava decisa, spingendo il sole dall’altra parte del globo; mentre la luna, prendendo a spallate le nuvole, si fece largo nel cielo ed alcune stelle gelose decisero di accompagnarla in quel viaggio e scrutare con occhi luccicanti le meraviglie del mondo.
Mio nonno diceva: le stelle sono le lacrime di Dio intrappolate nel cielo, che ogni giorno l’Onnipotente versa osservando emozionato la sua creatura. Pensò tra sé il ragazzo.
Un gatto nero come la notte, inseguito dalla propria ombra, sfilò davanti a Simone. Il felino lo fissò guardingo per qualche istante; poi con indifferenza, svanì nel nulla.
Sarebbe rimasto volentieri ancora un pò con sua madre, ma il freddo pungente gli addentava sempre di più le ossa.
Tornerò.
Alcune gocce di pioggia cominciarono a battere sul selciato.
Tic tac, tic tac.
Una di esse si insinuò tra i capelli neri della madre, per poi correre lungo le guance vellutate e scomparire oltre il collo.
Simone prese un fazzoletto dalla tasca ed asciugò la foto della mamma, montata in una lapide di marmo rosa venato da striature nere.
Prima di allontanarsi posò vicino a delle rose rosse, un foglio scritto a mano. Un piccolo pensiero dedicato alla persona più importante della sua vita.
Madre e figlio. Esistenza nell’esistenza.
L’uno è un fiore, l’altro l’acqua che lo nutre.
L’uno è il vento, l’altro una vela da esso sospinta.
L’uno è il sole, l’altro la vita che prospera grazie ad esso.
Voltandosi il ragazzo s’incamminò a testa bassa verso uno stretto sentiero.
Il padre lo attendeva al cancello del cimitero, fumando nervosamente una sigaretta. Nel buio sempre più fitto il puntino della brace che si accendeva ad intermittenza, era simile ad un vecchio faro inghiottito dalle tenebre e dal mare nero come l’inchiostro.
Lungo la stradina ghiaiosa che riconduceva verso il mondo dei vivi, un leggero vento soffiò. Delle bellissime foglie rosso rubino, abbandonarono i loro padroni rami e fluttuando si deposero delicatamente sui bianchi sassolini simili a zuccherosi confetti.
Evitando di calpestarle, Simone ne osservò una.
Quanto può essere incantevole una banalissima foglia. Pensò tra sé.
I comignoli delle rustiche case sputavano boccate di fumo grigio, impregnando l’aria del tipico odore di legna bruciata che si miscelava con quello più tenue della terra bagnata.
Il ragazzo raggiunse il padre e parlandosi solo con gli occhi, s’incamminarono verso casa.

Si svegliò improvvisamente con il cuore che batteva impazzito. Aveva la fronte imperlata di sudore ed il pigiama umido. Fece un profondo respiro e lentamente riacquistò una calma apparente.
Un sogno. Si era trattato di uno sconvolgente sogno.
Scese dal letto; e senza accendere la luce si avviò verso il corridoio. All’altezza di una porta si bloccò. Attese qualche istante; poi afferrando con determinazione la maniglia entrò nel locale.
Pigiò un interruttore posto alla sua destra; e con decisione un bagliore spaccò l’oscurità.
Sopra alla scrivania, vicino ad un portapenne, c’era una foto: la foto di una madre e di un figlio abbracciati.
La guardò con nostalgia e tristezza, mentre alcune lacrime le bagnavano gli occhi verde smeraldo.
Passandosi una mano fra i lunghi capelli nero corvino, contemplò come un’opera d’arte la stanza di Simone.
Da sei mesi non c’era più.
Si era battuto da leone, ma la malattia lo aveva lentamente consumato come fosse la cera di una candela. Il Signore decise così di prenderlo con sé e porre fine a quegli inutili tormenti.
Prendi me; lascialo vivere! Ti supplico!!
Aveva pregato invano la madre, mentre Simone esalava gli ultimi soffi di vita.
Non era mai andata sulla tomba del figlio. Non ci riusciva.
Ma ora capiva.
Nel sogno Dio aveva esaudito le sue suppliche, lasciando vivere Simone e portando lei nel regno dei cieli. Le parole espresse dal ragazzo erano i pensieri della madre, rimasti per troppo tempo intrappolati in un muto silenzio.
Forse era il vento che strisciava fra gli alberi, ma in lontananza le parve di udire la voce del figlio.
Non ti preoccupare mamma. Io ora sto bene.

Il sole splendeva nel cielo e gli uccellini festosi cinguettavano bizzarre cantilene.
Oltre la folta siepe, il lago era ammantato dall’ombra delle alte montagne; mentre l’aria aveva sempre lo stesso sapore di legna bruciata.
La madre di Simone s’incamminò decisa lungo il sentiero ghiaioso.
Un vento freddo proveniente dal lago le scombinò improvvisamente i capelli e mentre con le dita li riassestava, una foglia rosso rubino si staccò da un ramo svolazzando ai suoi piedi.
Quanto può essere incantevole una banalissima foglia.
La donna abbassandosi l’afferrò e dopo averla teneramente accarezzata, la posò sul liscio marmo accanto alla foto del figlio.

lunedì 6 febbraio 2012

COPERTINA L'ANGELO DALLE ALI SPEZZATE "La Spirale del Male"



TRAMA L'ANGELO DALLE ALI SPEZZATE "La Spirale del Male"





http://www.amazon.it/LANGELO-DALLE-SPEZZATE-Spirale-ebook/dp/B0075R6IL6/ref=sr_1_1?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1328544479&sr=1-1


Ecco in breve la trama del libro:


Quanto tempo sei disposto ad aspettare prima di vendicarti?

Sembrava una notte come tante nel quartiere vecchio di Barcellona, ma quando l’indomani nella basilica di Santa Maria del Mar viene rinvenuto il corpo torturato e privo di vita di un prete la città sprofonda inesorabilmente in un agghiacciante incubo.
Impossibile tenere lontano i media.
Le indagini vengono affidate all’ispettore Valez, poliziotto esperto ed integerrimo dotato di un intuito fuori dal comune.
In breve tempo il misterioso killer torna spietatamente a colpire. Uccide apparentemente in maniera casuale: persone che non si conoscono vengono trovate morte in seguito ai supplizi subiti. L’assassino fa anche di più, amputa parti del corpo sempre differenti e lascia una scritta di sangue: “Que es la veritat?”
La polizia scavando in un lontano passato riporta alla luce delle terribili verità, perché le vittime sono tutte legate ad un nome. Il nome di un bambino.
Gli omicidi si susseguono senza tregua come se l'assassino avesse fretta di terminare la sua missione, come se qualcosa rimasto nascosto troppo a lungo sia finalmente uscito allo scoperto…
Il cerchio si è aperto in una spirale e fino a quando non sarà fatta giustizia, il cerchio non si chiuderà.

MAXIME DOE

link dell'Autore su Amazon
http://amazon.com/author/maximedoe