NON DISTURBATE I MORTI
Bill detto “spaghetto” fu l’ultimo dei tre ragazzi a
varcare il cimitero. Chiuse il cancello che stranamente non emise alcun
cigolio, separando così silenziosamente il mondo dei vivi da quello dei morti.
Tom
detto “il gigante” guidava lo sparuto gruppetto attraverso gli stretti
sentieri ghiaiosi che simili a bianchi serpenti dividevano le lunghe file di
lapidi.
La
fitta oscurità della notte, giocando con la tenue luce della luna, creava
strane e deformi ombre che in quel sinistro luogo apparivano ancora più
terrificanti.
«Da
questa parte» disse sussurrando Tom detto “il gigante”.
Will
che nonostante la bassa statura non aveva alcun nomignolo ma era semplicemente
Will detto “Will”, seguiva come un segugio Tom detto “il gigante”, nonostante
non sapesse dove stessero andando e perché si trovassero nel cimitero.
Will
detto “Will” non parlava molto, anzi, non parlava quasi mai. Avrebbero potuto
chiamarlo Will detto “il basso”, oppure Will detto “il muto” ma per qualche
ignota ragione era Will detto “Will”. Forse perché avevano considerazione in
lui, oppure perché di considerazione non ne avevano affatto.
Nel
silenzio si udiva solo il passo dei ragazzi sopra la candida ghiaia. Crick
crack, crick, crack. Più che un flebile suono sembrava il lamento di una cornacchia
morente.
«Dove
stiamo andando?» osò chiedere Bill detto “spaghetto”.
«Andiamo
a fare una visitina a Jeremia» rispose Tom detto “il gigante” senza voltarsi.
Jeremia
era il vecchio custode del cimitero e prima di lui lo era stato suo padre e
prima ancora suo nonno. Abitava da solo in una piccola casa in legno oltre il
lato occidentale del cimitero. Era una persona schiva, solitaria, silenziosa,
in sostanza: un perfetto guardiano.
I
visi sorridenti di uomini, donne, giovani, anziani, stampati sul freddo ed
umido marmo delle lapidi, osservavano i tre ragazzi mentre superavano a zig zag
file di tombe cullate dalla madre terra.
Tom
detto “il gigante” continuava a fare strada tenendo saldamente una piccola
torcia che illuminava ora una lapide, ora una foto, ora un lumino, ora un fiore
appassito.
Il
verso di una civetta morse improvvisamente il raggelante silenzio, scavando
solchi di paura tra le ossa di Bill detto “spaghetto” e Will detto “Will”. Tom
detto “il gigante” mostrò invece indifferenza, continuando a camminare con
passo spedito. Avrebbero potuto chiamarlo anche Tom “lo spavaldo”.
“Non
bisogna avere paura dei morti, ma dei vivi” continuava a ripetersi Bill detto
“spaghetto”, cercando nel frattempo di non perdere di vista gli altri due
ragazzi.
Nonostante
ciò, in quel momento, Bill detto “spaghetto”avrebbe preferito essere tra i
vivi.
Avevano
attraversato l’intero cimitero ed ora, nascosti dietro una grossa quercia,
osservavano nell’oscurità più cieca l’unica luce proveniente dalla finestra
della casa di Jeremia.
Un
sottile filo di fumo usciva dal comignolo in pietra, si arrampicava in cielo e
si espandeva poi in una densa nebbiolina grigia.
Il
vecchio custode era evidentemente a godersi il tepore del camino.
«Che
cosa facciamo?» chiese Bill detto “spaghetto”.
«Qualche
scherzetto al vecchio» rispose Tom detto “il gigante” con un sorriso che gli
si allargava sempre più sul volto. «Fai l’ululato del lupo» aggiunse
rivolgendosi a Will detto “Will”.
Non
parlava molto, ma Will detto “Will” era bravissimo a fare l’ululato del lupo.
«Ahuuuuh»
obbedì Will detto “Will” con un perfetto ululato che avrebbe fatto invidia al
più narcisista dei licantropi.
La
porta della casa si aprì improvvisamente, mentre l’ultimo eco dell’ululato
spariva in fondo al pozzo nero della notte.
Il
vecchio Jeremia tenendo in mano una vecchia lampada ad olio, molto più vecchia
di lui, scese i quattro gradini umidi e marci della piccola veranda.
La
pelle incartapecorita del volto e delle mani rischiarati dalla fioca e tremante
fiammella, lo faceva apparire come un consunto cadavere senza dimora.
I
tre ragazzi protetti dal tronco dell’albero, osservavano attenti il povero
Jeremia che con passo malfermo si avviava verso di loro.
«Ci
avrà visto?» chiese Bill detto “spaghetto”.
«Figurati!
È mezzo cieco!» rispose Tom detto “il gigante”.
Will
detto “Will” si limitò ad alzare lo sguardo.
«Corri
dietro a quel cespuglio ed al mio segnale rifai l’ululato».
«Quale
segnale?» chiese Bill detto “spaghetto”.
Tom
detto “il gigante”, guardandosi attorno, prese un piccolo ramo da terra.
«Lancerò
questo verso il vecchio. Questo sarà il segnale. Dopodiché scapperemo
attraversando il cimitero in direzioni diverse e ci ritroveremo al cancello».
Tutto
era pronto.
Il
vecchio Jeremia fece qualche passo in direzione del cimitero, quando
improvvisamente un lungo soffio di vento investì l’aria immobile. Alcune canne
di bambù poste in uno stagno poco distante, presero a vibrare emettendo un
suono continuo.
Un
lamento.
Un
suono simile ad un ululato.
Da
quarant’anni, ogni anno, ogni 12 novembre, udiva quel particolare effetto
acustico.
Da
quel tragico lontano 12 novembre 1969.
Un
brivido gli corse lungo la schiena ricurva, cacciandolo faccia a faccia ad un
doloroso passato.
Fece
altri due passi.
Un
grosso corvo librando nel cielo tinto di nero, si adagiò su un sottile ramo di
uno scheletrico albero ormai morente.
Il
ramo si spezzò e mentre l’uccello riprendeva il volo, il pezzo di legno cadde
sulla spalla di Jeremia, rimbalzando poi a terra.
Da
quarant’anni, ogni anno, ogni 12 novembre, un ramo lo colpiva.
Massaggiandosi
la spalla dolorante proseguì verso il cimitero, quando un fruscio proveniente
da un cespuglio catturò la sua attenzione.
Come
in quel lontano 12 novembre 1969.
Come
ogni 12 novembre.
Illuminando
l’arbusto con la vecchia lanterna vide un gatto dal pelo rossiccio che con
totale indifferenza si avviò verso le file di lapidi.
I
tre ragazzi si separarono prendendo ognuno un sentiero diverso.
Correvano
come pazzi, chi con un sorriso di scherno, chi con il terrore stampato sul
volto.
Bill
detto “spaghetto” non sorrideva affatto.
Galoppava
come un purosangue, avendo come unico riferimento la bianca ghiaia. Per il
resto era circondato dalla fitta oscurità che come un silenzioso nemico
attendeva il momento opportuno per colpire.
E
avrebbe colpito.
La
strada sempre dritta fino a quel momento voltò bruscamente verso destra.
Bill
detto “spaghetto” troppo concentrato o troppo spaventato, non se ne accorse e
come un treno che deraglia proseguì la folle corsa inciampando contro un
grosso vaso con dei fiori secchi.
Cadde
a terra picchiando violentemente la tempia destra contro lo spigolo di una
lapide.
Non
fece in tempo ad emettere alcun lamento.
Il
viso adagiato in terra su di un lato. La bocca semiaperta. Gli occhi vitrei a
fissare il nulla. Una lapide ferita che grondava sangue.
Will
detto “Will” a dispetto delle corte gambe correva come un fulmine. Aveva una
voglia pazza di uscire dal cimitero, nonostante sapesse che al di là del
cancello il mondo sarebbe stato più infido e pericoloso.
Uscire,
uscire, uscire. Continuava a ripetersi Will detto “Will”.
Improvvisamente
decise di abbandonare il sentiero e tagliare attraverso le tombe. Procedendo
agilmente a zig zag tra le eterne dimore, sapeva che avrebbe raggiunto il mondo
dei vivi molto prima degli altri ragazzi.
Correva,
saltava, correva. Ma nonostante la destrezza non fece in tempo a vedere, nel
buio sempre più buio, qualcosa di ancora più buio.
Una
grossa macchia profonda sei piedi. Un buco. Un buco che attendeva Barnie, il
farmacista del paese.
L’ex
farmacista del paese che in quel momento stava passando l’ultima notte nel suo
letto, circondato dall’affetto e dalle lacrime dei parenti più stretti.
Will
detto “Will” tentò disperatamente di frenare con i talloni.
Will
detto “Will” cadde di testa all’interno del buco e si spezzò il collo.
Per
qualche ora, prima che Barnie lo sfrattasse, quel rettangolo di terra scavato
divenne la prima dell’ultima dimora di Will detto “Will”.
Tom
detto “il gigante”, facilitato dalla luce della torcia, arrivò all’uscita
senza particolari difficoltà.
Degli
amici nessuna traccia, ma soprattutto il cancello era chiuso.
“Li
aspetterò fuori” pensò fra sé Tom detto “il gigante”.
Come
un ragno cominciò ad arrampicarsi sulla massiccia inferriata. Ma non era un
agile ragno, bensì un grasso orso.
Sudato e affaticato raggiunse comunque la
parte superiore del cancello.
Grossi
spuntoni in ferro che come affilate lance pungevano il cielo, gli sbarravano la
scalata ma Tom detto “il gigante” non si perse d’animo.
Facendo
attenzione fece passare una gamba dall’altra parte della cancellata.
Un
profondo respiro e poi un altro.
Lentamente
cominciò a spostare l’altra gamba. Ma Tom detto “il gigante” era abile a fare
pugni, non a scavalcare arrugginite inferriate.
Il
piede d’appoggio scivolò, insieme alla sua giovane vita.
Rimase
lì per tutta la notte in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, con
un acuminato pezzo di ferro ficcato nel cuore.
Jeremia
conosceva ogni singola tomba, quasi tutti i proprietari di esse e quasi tutti
li aveva seppelliti lui.
Camminando
tra le lapidi superò quella di Barnie il farmacista, morto ormai da
quarant’anni. Erano stati amici. Forse l’unico suo vero amico.
Proseguì
in silenzio, respirando sommessamente e camminando quasi in punta di piedi.
Non voleva disturbare il sonno eterno dei morti.
Poi
ad un tratto si fermò, adagiò la lanterna in terra e guardò quelle tre lapidi
una accanto all’altra:
-
Bill Grabby detto “spaghetto” 1954-1969
-
Tom Spill detto “il gigante” 1953-1969
-
Will Stand detto “Will”
1954-1969
Come
ogni 12 novembre gli spiriti irrequieti dei tre ragazzi rivivevano all’infinito
quel loro ultimo infausto giorno di vita. Passeggeri intrappolati su una
giostra infernale che gira, gira e rigira ancora senza mai fermarsi. Dove il
sinistro mietitore con il suo cappuccio nero dirige come un maestro di musica
la funerea sinfonia.
Come
ogni 12 novembre Jeremia osservò con velata tristezza e celata compassione le
vecchie foto in bianco e nero di Bill, Tom e Will.
E
come ogni 12 novembre, da quarant’anni, iniziò a pregare.